Le metafore della pandemia come veicolo di comunicazione: rischi e potenzialità sulle aspettative e sul comportamento individuale e collettivo

A cura di: C.Gatteschi, F.Ierardi


11/5/2020
La figura retorica della metafora non è considerata solo un abbellimento linguistico ma anche una forma di pensiero e uno strumento che permette di categorizzare le esperienze umane. Le metafore infatti incidono sul nostro modo di pensare e di percepire gli eventi, giocando un ruolo molto significativo nel determinare ciò che è reale per noi (1).

Mai come adesso la modalità che viene scelta per comunicare ed informare le persone ha il potere di suscitare reazioni o portare alla comprensione di quanto stiamo vivendo.
Per le sue caratteristiche intrinseche la metafora è una figura perfetta per descrivere un fenomeno così emotivamente ingombrante come la pandemia da Covid-19. Allo stesso tempo però contribuisce anche al modo con cui leggiamo questo, come ogni altro evento, forzando la mano sulla percezione di poterlo in qualche modo controllare o, al contrario, sulla preoccupazione per la sua ineluttabilità. Sarà proprio questa diversa interpretazione che ci spingerà a provare fiducia, speranza e autodeterminazione oppure paura, panico e senso di impotenza. Ad un ultimo livello, forse il più impattante, queste emozioni guideranno le nostre azioni e i nostri comportamenti e, se il fenomeno in questione è la pandemia da Covid-19, queste ultime saranno alla base della salute e della ripresa di tutti.

È per questi motivi che la modalità che scegliamo per descrivere e raccontare la pandemia da Covid-19 costituisce uno degli strumenti che possediamo per affrontare la sua diffusione, le sue conseguenze e per poterne limitare gli effetti negativi.

Quali metafore hanno rappresentato la pandemia da Covid-19 nella popolazione generale e nel mondo scientifico?
Quella contro la Covid-19 è una guerra, il virus è un serial killer, un nemico invisibile e l’emergenza un’esplosione silenziosa. Infermieri e medici sono i nostri eroi, ma anche ancore o pirati e quello che stanno affrontando è un mare in tempesta. Le metafore che hanno animato la comunicazione della pandemia durante la fase 1 hanno certamente avuto effetti sull’immaginario collettivo; adesso, che da pochi giorni siamo entrati nella fase 2, dobbiamo domandarci come queste parole e queste immagini orienteranno i nostri comportamenti indirizzati ad un’auspicabile e lenta ripresa della normalità.

La fase 1: la metafora bellica e la metafora dell’eroe
Il giornalista di “Internazionale” Daniele Cassandro (2) segnala che “l’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra”. La metafora bellica è stata quella maggiormente utilizzata per raccontare la fase 1 della pandemia, anche se non sono mancate riflessioni, critiche e perplessità.

Perché l’utilizzo di questa metafora è stato così popolare? Forse, come sostiene Zingale (3), ci viene spontaneo descrivere qualcosa di nuovo con metafore vecchie o forse accade perché l’immaginario della guerra è profondamente radicato nell’inconscio collettivo. Inoltre è possibile che in un primo momento, nel quale il virus ci ha colto di sorpresa, il linguaggio bellico abbia avuto l’utilità di rendere coesa la popolazione, un’unica forza che contrasta un nemico comune. Il processo di costruzione sociale di un’emergenza richiede, infatti, che avvenga la trasformazione dei rischi in minacce ossia nell’azione intenzionalmente rivolta a danneggiarci da parte di un attore esterno (4). Una volta definita la gravità della minaccia, l’individuazione del nemico svolge la funzione strategica di coalizzare e mobilitare gli attori sociali spingendoli all’azione per contrastare l’aggressione subita. In quest’ottica, l’uso della metafora bellica ha aiutato ad identificare il nemico comune così da ridurre il senso di impotenza percepito e facilitare il processo di identificazione delle cause e, quindi, di attribuzione della responsabilità e della colpa (5).

Su un versante interpretativo opposto, Cassandro sostiene che l’immagine del paese in guerra contro il virus è rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo poiché “parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne(2).

Anche il sociologo Fabrizio Battistelli (6) ritiene che “è sbagliato mettere sullo stesso piano i due fenomeni – l’epidemia e la guerra – la cui essenza è diversa”. Questa scelta comunicativa può nascondere infatti un’insidia: focalizzando l’attenzione dell’opinione pubblica, e non solo, sul “contrasto” di un’epidemia come una guerra, il rischio è oscurare la “prevenzione”, che sarà l’azione su cui tutti, dall’individuo alle organizzazioni sanitarie, dovremo concentrarci all’indomani della fase 2. Inizia quindi a diventare opinione abbastanza comune che l’uso della metafora bellica non calzi proprio a pennello alla situazione attuale e che, anzi, questa possa orientare gli sforzi e favorire atteggiamenti che potrebbero anche rivelarsi controproducenti.

Alla luce di queste riflessioni, sembra che nel lungo periodo le immagini e i significati che la metafora bellica veicola non possano aiutarci a “vincerla” questa “guerra”, né come singoli individui né come società. Come già sosteneva Susan Sontag nel 1978, il rischio è che ci venga automatico affrontare un’emergenza sanitaria come se fosse una guerra, quando invece è necessario affrontarla per quello che è, cioè un complesso problema sociale, culturale o di emarginazione di determinate categorie di persone. Trattare una pandemia come se fosse una guerra ci rende docili, ubbidienti, e, in qualche modo, vittime, rischiando però di far diventare i malati le inevitabili perdite civili del conflitto (7).

Legata alla metafora bellica c’è senz’altro quella dell’eroe. Lavorare in condizioni fisiche e psicologiche difficili, dover sopportare ritmi di lavoro ben più stancanti di quelli a cui erano abituati, confrontarsi quotidianamente con sofferenza e morte e poter contare su risorse materiali ed individuali scarse rende sicuramente l’operato di medici, infermieri e di tutti gli altri operatori sanitari indiscutibilmente lodevole. Ma c’è da chiedersi, e qualcuno lo sta già facendo, quanto a tali professionisti la metafora dell’eroe vada a genio e se questi ne siano o meno gratificati.

Penso che le persone si accorgano oggi, quando percepiscono la loro vita a rischio, dell’importanza del lavoro dei sanitari. Penso che le persone ci chiamino eroi anche quasi per tenerci buoni, spronarci, incoraggiarci a fare qualcosa che può aiutare anche loro… Hanno paura di questa cosa e cercano quasi un appiglio nella nostra professione.” [narrazione raccolta da esperienza di un’ infermiera professionale afferente al circuito RSA della Toscana durante la pandemia]

Lo psicologo Matteo Toscano (8) sostiene che gli operatori sanitari non vogliono essere chiamati eroi, poiché quello che stanno svolgendo è il proprio lavoro ed il proprio dovere; ciò che invece chiedono − e vale sia per i tempi di “guerra” che per quelli di "pace" − è il rispetto per il proprio ruolo professionale. Toscano sottolinea come l’immagine dell’eroe attribuita al sanitario sembra in sostanza legittimata dalla credenza che il professionista della cura debba essere sprezzante del pericolo, facendo la sua "impresa" anche a costo della sua stessa sicurezza. Certamente sappiamo che non è (e non può essere) questo l’atteggiamento degli operatori sanitari e che la tutela della loro salute è un fattore imprescindibile. Nella quotidianità però sappiamo quanto essi siano costretti a lavorare in assenza di certezze, dove le scelte compiute non sono riferibili ad eroi che prendono coraggiose iniziative, ma a professionisti che si appellano alla propria etica professionale.

La metafora dell’eroe mi fa sorridere, ma mi da anche un po’ noia, perché alla televisione hai visto turni massacranti, gente scafandrata e turni di 12 ore quando in realtà, a parte gli indumenti e il vestiario, a noi la vita non ci è cambiata. Quindi eroi o siamo sempre o non siamo mai.” [narrazione raccolta da esperienza di un’ infermiera professionale afferente al circuito RSA della Toscana durante la pandemia].

Questa drammatica emergenza ha dunque fatto luce sul bisogno espresso dai sanitari che attenzione, gratitudine e rispetto, spontanei dato il momento attuale, perdurino anche oltre il periodo dell’emergenza attraverso la valorizzazione delle professioni sanitarie e la creazione delle condizioni organizzative per svolgere al meglio il lavoro di cura.

La fase 2: dalla metafora della guerra alla metafora della cura
Se, come abbiamo visto, parlare di guerra ci sposta su un piano di diffidenza e passività (7), all’indomani dell’apertura alla fase 2 la comunicazione deve puntare su valori indirizzati alla spinta e alla ripresa del paese, opposti quindi a quelli che evoca la metafora bellica.

Da quando in tutto il mondo la narrazione predominante ha assunto la terminologia della guerra Guido Dotti, monaco di Bose (9) ha cercato di trovare una diversa metafora che possa rendere giustizia di quanto stiamo vivendo e soffrendo e che offra nuovi elementi di speranza e sentieri di senso.“Ma allora, se non siamo in guerra, dove siamo? Siamo in cura!”. Guido Dotti ribalta così la prospettiva da guerra a cura, sostenendo che entrambe hanno bisogno di alcune doti come la forza (altra cosa dalla violenza), il coraggio, la perspicacia e la tenacia, ma si nutrono di alimenti completamente diversi: la guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di inganni e di spietatezza, la cura invece si nutre di prossimità, solidarietà, compassione, pazienza e perseveranza.

Anche il presidente Steinmeier (10), nel suo discorso ai cittadini tedeschi sulla situazione COVID-19 e sulle iniziative economico/politiche, ha fatto leva proprio sui valori fondamentali della cura, specificando come questa pandemia non si possa considerare una guerra poiché le nazioni non sono contro le nazioni e i soldati non sono contro i soldati. Steinmeier sostiene che è esattamente il contrario, questa pandemia è una continua prova di umanità e di solidarietà. I ricercatori di tutto il mondo, ad esempio, stanno condividendo le conoscenze e le ricerche in modo da poter ottenere vaccini e terapie il più rapidamente possibile, in una vera alleanza globale, non certo in un conflitto fra paesi. Mai come adesso le nostre azioni sono fondamentali per la sopravvivenza delle persone intorno a noi e questo non solo è concettualmente all’opposto della guerra, ma è alla base del prendersi cura degli altri. Così ad essere artefici di cura non sono solo i medici, gli infermieri, i virologi e gli scienziati, ma anche i governanti, i politici, i lavoratori di tutti i settori e ogni singolo cittadino.

Infine la metafora della cura può e deve guidare anche la riorganizzazione sanitaria verso la valorizzazione della persona, prestando maggiore attenzione al benessere non solo del paziente, ma anche dell’operatore sanitario. Marilena Cara (11), medico nefrologo e psicoterapeuta Junghiana, sostiene “che questo potrebbe essere un momento epocale per la sanità e per coloro che la amministrano: l’inizio di una nuova umanizzazione delle cure che ha come punto di partenza il lato umano di chi ha tra le mani la scienza medica.

La consapevolezza di essere in cura, e non in guerra, è una condizione fondamentale per l’attuale fase 2. La nostra ripresa e il nostro futuro saranno determinati dalla capacità di ognuno di noi di prevenire e prenderci cura l’uno dell’altro.

“Le guerre finiscono – anche se poi riprendono non appena si ritrovano le risorse necessarie – la cura invece non finisce mai”.



Per approfondire

Bibliografia e sitografia
  1. Lakoff, G., Johnson, M., 1998, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano (tit. orig. Metaphores we live by, University of Chicago Press, Chicago 1980
  2. https://www.internazionale.it/opinione/daniele-cassandro/2020/03/22/coronavirus-metafore-guerra
  3. http://www.salvatorezingale.it/metafore-fredde/
  4. Biancheri, R., Niero, M., & Bordogna, M. T. (Eds.). (2012). Ricerca e sociologia della salute fra presente e futuro: Saggi di giovani studiosi italiani (Vol. 31). FrancoAngeli. Pag. 243
  5. Biancheri, R., Niero, M., & Bordogna, M. T. (Eds.). (2012). Ricerca e sociologia della salute fra presente e futuro: Saggi di giovani studiosi italiani (Vol. 31). FrancoAngeli
  6. http://temi.repubblica.it/micromega-online/coronavirus-metafore-di-guerra-e-confusione-di-concetti/
  7. Sontag, S. (1979). Malattia come metafora: il cancro e la sua mitologia. Einaudi.
  8. http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=83822&fr=n
  9. http://www.aclibergamo.it/2020/03/31/siamo-in-cura-non-in-guerra-di-guido-dotti-monaco-di-bose/
  10. https://www.youtube.com/watch?v=sfCqx8ys0Sw
  11. http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=83826


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